Fotografia minima, colori scuri e accenni di luce. Queste sono le prime parole che userei per descrivere il film del 2019 diretto da Kim Tae-hun e Kwak Kyung-taek, La battaglia di Jangsari: eroi dimenticati.
Con il suo cast internazionale, questo film ha attirato la mia attenzione proprio per questo motivo. Volevo capire come e, soprattutto se, i membri del cast si fossero amalgamati tra di loro. Le aspettative non erano alte anche poiché il genere si discosta molto da quello che preferisco, però quando ci si appassiona ad una cultura, la voglia di scoprire non è mai abbastanza.
Tratto da una storia vera, il film parla della guerra di Corea del 1950 ma sottolineando un aspetto che si tende a mettere in secondo piano, ovvero la partecipazione degli studenti soldato ad una determinata fase della guerra.
Al centro di tutti i 104 minuti del film, c’è un gruppo di 772 ragazzi, tra i 17 e i 22 anni circa, con solo due settimane di addestramento, arruolati per creare un diversivo a Jangsari per ingannare l’esercito nord coreano e allontanarlo il più possibile da Incheon, luogo dove in effetti si stava organizzando la vera battaglia.
La recitazione degli attori è impeccabile, nessuno prevale sull’altro, ma al contrario tutto il cast sembra muoversi come se fosse un solo personaggio che si scaglia sulla scena. Nulla sembra costruito o forzato, i loro sentimenti nascono dalle scene vissute,
dai momenti in cui sono costretti a uccidere, quelli in cui mangiano insieme, quelli in cui litigano e infine quelli in cui sono costretti a dirsi addio.
Ho apprezzato molto e ho trovato commovente come siano stati inseriti anche le reazioni dei ragazzi alla morte dei soldati nemici, ragazzi come loro costretti a combattere una guerra che molto probabilmente per loro non ha senso. Esempio di
questo è il momento in cui Seong- pil legge la lettera scritta da un ragazzo nord coreano ucciso indirizzata alla sua famiglia.
Le lacrime non hanno città, partito o altro, le lacrime di quei soldati e il loro dolore hanno uguale forma e uguale peso.
Il film è brutale, crudo e non risparmia allo spettatore nessuna immagine che vede come protagonisti questi ragazzi: dalle lettere scritte tra le lacrime, alla loro morte, passando per scene in cui si ricorda il passato oppure in cui si immagina il momento in cui si potranno riabbracciare i propri cari.
La sceneggiatura è breve, non particolarmente accentuata ma allo stesso tempo reale perché non si dà spazio a grandi argomentazioni belliche, ad esempio, ma a dialoghi toccanti, ricordi e addii.
La fotografia, secondo me, è la parte migliore di tutto il film, straordinaria, d’effetto e che si sofferma sulla crudeltà che i soldati sono costretti a vivere, mandati a combattere come se fossero carne da macello.
Inoltre la regia è stata impeccabile nel suo essere dinamica passando velocemente da un fotogramma ad un altro mettendo in risalto i rumori, le urla, gli spari, la sabbia, la polvere. Questo è quello che regna sullo schermo, intervallato solo da attimi di luce. La luce però è diversa in base alla scena.
Abbiamo la luce che regna quando l’attenzione si sposta sulla zona americana; la luce degli spari o delle bombe e infine la luce che non è riferita alle ore di giorno, ma anche quella che sembra nascere quando vengono inquadrati i sorrisi dei ragazzi ignari del loro destino.
Di solito accompagno la mia recensione ad una frase che mi ha colpito, ma questa volta vorrei lasciarvi con l’immagine del mare che secondo me alla perfezione descrive il film.
Il mare gelido, scuro, indomabile, ha portato i ragazzi a combattere. Sempre lo stesso mare, però, è stato per alcuni fonte di salvezza e per altri luogo di morte, ma esso come se fosse una coperta, li avvolge facendoli riposare.
Infine il film si chiude con l’immagine di un mare celeste, calmo e brillante che porta ancora con sé quelle vite, il loro ricordo e che secondo me rappresenta la vita che, grazie al sacrificio di quei ragazzi, è stata offerta alle generazioni future.