Sunja lo sentiva dire da una vita dalle altre donne che il destino di tutte era soffrire: soffrire da ragazze, soffrire da mogli, soffrire da madri, morire soffrendo. Go-saeng, quella parola le dava la nausea. Ma che altro c’era oltre la sofferenza?
Questa è la storia degli inascoltati, di tutti coloro che sono stati ignorati e traditi dalla storia, la storia di una famiglia qualsiasi dunque e di una giovane donna nello specifico, che nasce nella Corea occupata dall’Impero Giapponese e che circostanze legate alla tradizione e all’onore la spingono ad attraversare il mare, per ritrovarsi proprio nella terra degli occupanti, il Giappone.
Per i Giapponesi i Coreani sono meno di niente, sono pericolosi, privi di morale, svogliati e sporchi, li chiamano con un termine dispregiativo, “zainichi”.
Qui la giovane Sunja, si chiama così una delle protagoniste della nostra storia, reinventa la sua vita e quel secolo di storia che li vede protagonisti, ci viene raccontato attraverso il loro vissuto che si intreccia con gli eventi del tempo. La loro vita è segnata dalle guerre, dalle morti, dai tradimenti e dalle incomprensioni e da un protagonista, che appare sempre in bella vista, le sale da gioco, le sale del Pachinko, un gioco d’azzardo giapponese creato durante la seconda guerra mondiale, frequentate senza sosta dai giapponesi. Luoghi gestiti dalla Yakuza per lo più, la criminalità organizzata giapponese, ma anche unico luogo in grado di procurare ai coreani veri guadagni. Anche se gestirle vuol dire essere affiliati, di nome se non di fatto, alla mafia giapponese. Sporcare una reputazione già di per sé imbrattata dalle origini.
In una cornice vivida ed intensa, una storia semplice eppure coinvolgente e a tratti così familiare, da poter essere la storia della nostra famiglia e per alcuni versi, è stata la storia di alcune famiglie, anche di famiglie italiane emigrate all’estero, in una terra ostile a loro.
Come promesso per parlare di Pachinko – la moglie coreana libro della scrittrice Min Jin Lee, il consiglio letterario dell’ultimo #dramiamoinhanbok, avrei fatto un post a sé ed oggi è arrivato il momento di parlare proprio di lui.
Questa volta non vi racconto la trama nello specifico, perché lo avevo già fatto nella recensione dedicata al drama, che trovate tranquillamente qui sul feed, così passiamo direttamente alle mie impressioni.
Pachinko è un romanzo corale, narrato in terza persona, eppure la sua costruzione permette al lettore di entrare immediatamente in sintonia con i suoi personaggi e di individuarne pregi e difetti, nessuna barriera, linguistica o strutturale, ci separa da loro.
La prima differenza con il drama è sicuramente la base del romanzo, suddiviso in tre parti, ognuna con un preciso indirizzo spazio-temporale. Una narrazione lineare, che si muove intorno a loro, ma che non va mai oltre loro, non si muove cioè mai con l’intento di anticiparli.
Sicuramente una ricostruzione più apprezzata e ricercata in un romanzo, meno in una serie tv.
Come differente è la costruzioni dei personaggi, che hanno nel romanzo una tridimensionalità diversa, di più ampio respiro se vogliamo,anche grazie ai pensieri che possiamo leggere qui e lì, durante la narrazione.
Così Sunja che ci appare come una donna forte e pronta a tutto per sostenere la sua famiglia, ci mostra anche il lato di sè che desidera e che spera di essere desiderata.
Noa il ragazzino nato nella generazione di mezzo, non pienamente giapponese ma mai veramente coreano, è in bilico perenne sulle sue origini. Colpevole, secondo lui, del suo sangue sporco e delle scelte sbagliate dei genitori.
Hansu che potrebbe sembrare il solito gangster spietato ed ambizioso, ci mostra anche il lato fragile e disilluso.
Si tratta si un’opera viscerale, che scava dentro l’animo umano, con nessun intento se non quello di raccontare una storia, la storia dei tanti che hanno vissuto una vita di difficoltà e che hanno lanciato la sfera del Pachinko sperando che la fortuna avrebbe, prima o poi, girato anche a loro favore.
Ma ora ditemi, voi avete letto il romanzo? Lo avete preferito al drama oppure siete più dell’idea che si tratta di opere diverse e come tali debbano essere trattate?