Stephen King scrive che:
I mostri sono reali e anche i fantasmi sono reali. Vivono dentro di noi e, a volte, vincono.
Oggi per #rassegnadallacorea, parliamo della docuserie “The Raincoat Killer: Chasing a Predator in Korea“, in tre puntate, prodotta da Netflix, dedicata al serial killer Yoo Young-chul (유영철), noto con il nome di killer dell’impermeabile (레인 코트 킬러 ).
Questo caso della cronaca nera coreana, ha scosso non solo l’intera società, ma ha determinato anche una riforma all’interno delle forze di polizia del paese.
Prima di iniziare, voglio ricordare che si tratta di un caso di cronaca nera veramente brutale ed agghiacciante, la docuserie non risparmia nessun dettaglio, pertanto se siete particolarmente impressionabili, vi ringraziamo per essere arrivati fino a qui e vi aspettiamo per un altro appuntamento.
Ora iniziamo.
Corea del Sud, dal settembre del 2003 al luglio del 2004, il paese viene attraversato da una serie di omicidi, che almeno all’inizio non sembrano collegati tra di loro. Perché le vittime del serial killer erano principalmente donne, sex worker e anziani ricchi residenti a Seoul.
Inizialmente infatti, Young-chul, colpiva le vittime direttamente nelle loro abitazioni e le uccideva brutalmente servendosi di un martello. Le prime indagini erano state inconcludenti, proprio perché era difficile capire il modus operandi. Se le case non erano state rapinate ma gli inquilini uccisi, non si poteva certo trattare di un caso di rapina finito male? O era forse questa l’intenzione del killer?
Questa difficoltà nel rintracciarlo aveva provocato panico e terrore negli abitanti di Seoul. Ma in lui aveva fatto scattare qualcosa, una strana sicurezza probabilmente, perché dalle case, iniziò a colpire in maniera più mirata, principalmente sex worker, che invitava a casa sua, con cui consumava il rapporto e che poi uccideva. Donne scelte non a caso, ma selezionate perchè avessero parametri specifici.
La docuserie analizza passo passo i casi del killer dell’impermeabile. All’inizio il racconto è un po’ confuso, ti trovi spaesato, anche perché non è un caso di cronaca con cui abbiamo familiarità, ma piano piano il racconto si dispiega e la trama appare sempre più evidente. Come spesso accade per le docuserie di Netflix, il lavoro della produzione è particolarmente attento. La ricostruzione avveniene attraverso documenti, audio e filmati storici, interviste alle persone coinvolte, nel caso specifico poliziotti, patologi forensi e familiari delle vittime. Ma anche attraverso l’uso di filmati ricreati ad hoc per la docuserie.
Come dicevo il caso è particolarmente agghiacciante, pensate che dopo averle uccise infatti le faceva a pezzi, tagliava loro la testa e per nascondere l’odore nauseabondo, visto che per arrivare al luogo della sepoltura si spostava in taxi, li metteva dentro buste con del kimchi stagionato, in modo che chiunque chiedesse, l’odore proveniva dalle buste per quel motivo in particolare. Nella sua confessione ha anche ammesso di aver consumato del fegato delle vittime.
Un caso che, come dicevo sopra, ha riformato la polizia. La prima volta che venne preso in custodia riuscì senza problemi ad eludere la sorveglianza, a dir poco scadente ed inadeguata, e fuggire inosservato. Venne fortunatamente catturato in tempo, prima che commettesse l’ennesimo brutale delitto. La polizia da allora ha disposto un’indagine interna per eliminare tutte le falle presenti nel sistema ma soprattutto grazie alla combinazione di tecnologie forensi, procedure con effetti comprovati ed abilità investigative dei detective la risoluzione dei casi di omicidio è salita al 98,5%.
Sono 20 le vittime che gli sono state riconosciute, vittime uccise principalmente per il risentimento che provava nei confronti dei ricchi e delle donne, persino durante l’interrogatorio, seguito alla sua cattura, non parlò con nessuna poliziotta. Questa questione del risentimento sarà oggetto di analisi nella serie e ascolterete anche lo stesso killer rilasciare una dichiarazione alla stampa, in cui dichiara le ragioni che lo hanno spinto ad agire in quel modo. È stato condannato alla pena di morte.
A riguardo, apriamo una piccola parentesi giuridica. La Corea del Sud è considerato un paese, si dice abolizionista de facto, dal momento che nessuno viene più giustiziato dal 1997, ma si viene ugualmente ancora condannati. Amnesty International si augura che l’ultimo anno della Presidenza Moon porti all’approvazione di una nuova legge che l’abolisca definitivamente. Sappiamo tuttavia, da casi piuttosto recenti, che in realtà sulla questione l’opinione pubblica è molto divisa, forse più che su altri argomenti.
Attualmente quindi Young-chul, si trova nel braccio della morte ma la condanna non è stata eseguita.
Ritornando un ultima volta sulla struttura del documentario, permettetemi un breve plauso alla fotografia della docuserie, capace di spaziare dai filmati storici, perfettamente integrati nel racconto, che non spezzano il ritmo ma anzi lo arricchiscono, alle panoramiche che vengono fatte di Seoul. Molto interessante anche il ripetersi di alcune frasi chiave, che vengono scritte sullo schermo in hangul. Anche se breve, nella docuserie si cerca anche di offrire uno spaccato della società coreana di inizio anni 2000. Del modo in cui ci si approcciava ai casi di true crime, di come venivano risolti e di quello che lasciavano e lasciano, soprattutto.
Per approfondire, vi lascio un ulteriore articolo con l’intervista al regista Rob Sixsmith, colui che ha curato questo primo esperimento di Netflix dedicato al caso true crime coreano.
Questo articolo è stato redatto, elaborato e scritto da Eleonora per la rassegna dalla Corea in collaborazione con La Corea a 360°.
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